MY ONLY MASTER

Aprile 23, 2024

Ti sei sposato il 31 dicembre del 1987.

Tuo figlio è nato il 14 maggio del 1988.

Nel giugno del 1988 mentre io stavo al mare a Sebastopoli ci sentivamo ogni tre giorni in
un’epoca nella quale non esistevano ancora né cellulari né e-mail né sms.

Mi sto accorgendo che crescendo e diventando vergognosamente sentimentale per non dire patetica e caramellosa, mi affeziono sempre di più alle situazioni banali, alle parole ritrite, alle condizioni sbiadite. Lì, dentro, mi sento meravigliosamente protetta, perché so come comportarmi, avverto con la precisione del tiro, quando è il momento di piangere o di ridere, di scrivere, di sospirare, di attendere oppure di caricare ancora una volta la mia magica carabina (“La Fée Carabine”) per poter illuminare con uno spettacolo sfavillante una serie di eventi provocati dall’esplosione dei sentimenti.

Ancora adesso, più di trentacinque anni dopo, mi ricordo il luogo preciso dove mi dicesti che Oxana era incinta. Eri venuto a prendermi all’università, era martedì pomeriggio di una stagione di sensi di colpa, l’autunno. Non l’autunno di foglie colorate, ma l’autunno spento, con cieli grigi come una maglietta bianca lavata troppe volte. Stavamo entrando nel bar all’angolo di piazza della Vittoria, io guardavo la mia borsa rossa e tre gradini davanti e mentre sollevavo il piede, mi dicesti: “Oxana è incinta”. Era la prima volta che la chiamavi per nome e non “oggetto del desiderio” (che molto spesso, per stringatezza, era semplicemente “oggetto”). “Dovrei sposarla?”.

So di esser stata tremendamente serena. Alea iacta est. E di quel giorno non mi ricordo più niente. Amnesia anterograda.

Quando eri venuto a farmi gli auguri di Natale, stavo facendo la borsa per andare a San Pietroburgo. Era una scusa ufficiale per non essere presente al matrimonio. Era una scusa ufficiale per essere nervosa, frettolosa e superficiale. Sbrigativa. Mi facesti la più banale domanda di tutte le domande possibili e ti risposi che non c’era nessun bisogno di farmela, perché ognuno di noi si era divertito prescindendo dalle finalità morali e dalle inclinazioni artistiche. Ma la stupida banale domanda di quel giorno mi lusingò perché potevo illudermi, coltivare le speranze che erano destinate a realizzarsi solo anni dopo, quando per l’emozione imprevista ci eravamo ritrovati a parlare in inglese. La nostra lingua madre non acconsentiva a mantenere l’equilibrio del cuore infranto e dello spirito virtuoso. Parlare in inglese dei propri sentimenti, bisogni e desideri, ammettere o contestare impressioni, consapevolezze e giudizi è la più deliziosa illusione. Contemplare me stessa meditando sul lessico da usare, un giocoliere del cuore.

Era il 6 giugno, il giorno di nascita di Velasquez, il cui quadro “Las meninas” mi legò a te per anni, seppur ad intermittenza. La fitta leggera e saltellante, il codice Morse: trattino, punto trattino, trattino punto, trattino, trattino trattino trattino. Il telegrafo sentimentale – una sorgente di alimentazione, un trasmettitore e un ricevitore. Eravamo sempre in tre, tu tua moglie tue fidanzate io miei fidanzati oppure quelli che simulavano di essere miei fidanzati, riproduzione a scopo di esperimento, atti alle funzioni da noi richieste.
La nostra vera alimentazione erano le lettere, non sempre sincere e piene delle parole vuote, come certi mattoni con i quali erigere certi muri – assedio di una città affamata che si difende con l’acqua calda inventata al momento.

Non ho mai ammesso neppure a me stessa che ero innamorata di te. Riconoscerlo significava aspettare qualcosa, sperare, attendere. Riconoscerlo significava diventare vulnerabile, una di tante, perché solamente questa affinità elettiva, puramente platonica, mi sollevava da ogni dovere, ma purtroppo anche da ogni diritto. Come quello di arrabbiarmi o lamentarmi.
Quante volte mi avevi messo alla prova, quante volte ti avevo messo alla prova – non essendo mai stati insieme, non potevamo neppure litigare e lasciarci in santa pace, perché anche questo significava ammettere, e ne avevamo paura. Di cosa? Penso di perderci l’una l’altro – combattimento degli spiriti fra due individui che cercano di superarsi – non sarei sopravvissuta al tuo lasciarmi perché sei stato il primo uomo ad accorgersi della mia testa oltre a tutto il resto. Non potevo consegnarti anche il mio corpo, e non perché sapevo che non ne avresti avuto cura. Ma perché non lo conoscevo neanche io, non lo pensavo mai una parte di me, una continuazione di me, sapevo che poteva tradirmi, emozionandosi. Non sapevo distinguere le emozioni dalle sensazioni, comunemente diffuse, una semplice reazione a qualcosa che non eri tu, ma solo un uomo.

E quando ci siamo finalmente trovati come dovevamo ritrovarci, perché il tempo correva e io correvo dietro a lui, non più dietro a te, io ero cresciuta, un piccolo albero con la propria chioma appena germogliata e non ti guardavo più con il naso in su, ma alla pari – un uomo e una giovane donna pienamente consapevole di sé (la tua invisibile frusta mi insegnò una volta per tutte a dover tenere la schiena dritta e saper schivare qualsiasi colpo e colpa ma non le tentazioni). Ci siamo ritrovati e non ci siamo piaciuti. Le tue mani frettolose mi hanno fatto allontanare e guardandoti a distanza di solo qualche passo, sentivo distintamente le foglie che cadevano dal tuo albero, si alzavano in aria con il vento del cambiamento (wind of change) e mi permettevano di scrutare l’orizzonte. Sgombro di nuvole.

“Incontrandoti, io incontrerei me – con gli artigli sfoderati contro me stessa… Io non capisco la carne come tale, non le riconosco alcun diritto… Tu sai di cosa io ho voglia – quando voglio. Di oscuramento, rischiaramento, trasfigurazione. Dell’estremo promontorio dell’anima altrui – e della mia. Delle parole che non sentirai, non dirai mai. Dell’inaudito. Del mostruoso. Del prodigio”.

Nessun commento

I commenti sono chiusi.